Quando ero ventenne praticavo il karate, stile Shotokan. Mi piaceva non solo l’idea di imparare a usare mani e piedi come delle armi, ma anche lo spirito come un’arma. Un’arma di pace o di guerra, a seconda delle occasioni.
Mi sono accorto presto che le forme e i fondamentali non mi appagavano. Volevo combattere. Volevo un avversario. Così, già a cintura blu, feci un combattimento contro una nera per entrare in una squadra molto titolata.
Ne presi tante, ma il maestro giapponese apprezzò il mio coraggio. Ero proteso così in avanti, verso l’avversario, che ricevuto un calcio in piena pancia lo feci volare lontano, sul tatami. Io pensavo, adesso mi caccia, non ho schivato un colpo così prevedibile. E invece il maestro mi dice: bravo, tu sei inesperto ma coraggioso, tu non hai paura. La tecnica puoi impararla, il coraggio no. Erano, forse, i primi rudimenti del Bushido.
Così iniziò la mia carriera agonistica. Ero un incontrista, quelli per intenderci che anticipano attaccando. Mi sono tolto anche delle soddisfazioni in gara. Poi ho smesso quando ho iniziato a frequentare lo studio legale (all’epoca pensavo di fare l’avvocato), perché il socio titolare, a furia di vedermi con le labbra rotte e gli occhi pestati mi aveva detto: Alessandro, o diventi un nostro cliente del penale o smetti.
Ho smesso, ma ho conservato, inalterato, quel senso di ammirazione per il Giappone e per le sue regole più antiche, quelle del Bushido. Onore, valore, dedizione a una causa non sono parole vuote per me. Forse è per questo che disprezzo i traditori.
All’epoca ho avuto la fortuna di leggere due libri che esprimono bene il Bushido, e che vi consiglio.
Il primo è Ninja, di Eric Van Lustbader, un capolavoro. Ne sono rientrato in possesso in questi giorni, grazie a Ebay, perché in passato ho violato la regola numero uno dei libri. Prestarli. Si sa, un libro, quando viene prestato, si offende e non torna più indietro.
Rileggendo Ninja, ho riprovato le stesse emozioni. Per esempio quando il ninja, ucciso il suo bersaglio, si ferma un attimo a pregare, perché gli avversari si rispettano sempre. Questo è Bushido.
E poi quando ricorda un haiku stupendo:
Se solo potessimo cadere
Come fiori di ciliegio in primavera
Così puri e radiosi
L’haiku dei kamikaze. Per alcuni dei pazzi, dei criminali. Per me semplicemente Samurai, pronti a tutto per un ideale. Bushido
Mi sono chiesto: avrei il coraggio di immolarmi per una causa? Forse posso capire una cosa del genere se penso ai miei figli. Sicuramente morirei per difenderli. Darei la vita in un istante per difenderli o proteggerli. Senza dubbio. O difendere la loro madre.
Il secondo libro che esprime bene il Bushido è La nobiltà della sconfitta, di Ivan Morris. Raccoglie storie di Samurai che perdono la loro battaglia ma che, nel contempo, onorando il Bushido fanno della sconfitta e della morte un momento d’onore, un momento nobile. Ne parlo spesso ai miei figli, per spiegare loro che le sconfitte sono spesso i più grandi insegnamenti di vita, molto più delle vittorie.
Poi, naturalmente, ho scoperto il grande Mishima, forse l’ultimo dei Samurai.
Morte, sconfitta, violenza: tutte cose che il Bushido ti insegna a non temere, pur avendone paura, e ad affrontare.
Il Bushido ti pervade con una sensazione di giusto e di onore, anche quando hai subito l’ennesima sconfitta, mantenendoti ritto in piedi fino alla fine. Mi è già successo, mi è appena successo e accadrà di nuovo. Ma sono in piedi e il mio sguardo è fiero e giusto.
Se solo potessi cadere…