In questi giorni si parla molto della Nave e dell’esposizione mediatica della vicenda, fra la lunga cronaca della “riesumazione” del relitto (quasi una Telenovela, se non ci fossero di mezzo tristemente i morti) e varie nelle quali non voglio entrare, perché spero che il processo o i processi rendano giustizia ai morti e alle loro famiglie, compresa la sofferenza per quello che vedono e leggono in questi giorni.
Detto questo, c’è un momento in cui, tutti noi ci troviamo di fronte a scelte drammatiche, e la domanda spesso è: scappare o restare, affrontando le proprie responsabilità?
Niente di paragonabile a un disastro di proporzioni marittime, ma sono quelle cose che ti possono cambiare la vita e, nel mio caso, questa cosa è stata un pallone.
Immaginatevi una domenica calda, di fine estate. Io nella mia camera che scrivo, i ragazzi che giocano sul terrazzo (viviamo negli ultimi due piani di una palazzina alta circa trenta metri) con la madre che li tiene sottocchio.
La città è ancora semideserta, pochi osano passeggiare sotto il sole. Tutto sembra in armonia.
A un certo punto sulla soglia della camera compare mia moglie: è terrea in viso. Penso subito a un incidente, al fantasma numero uno di ogni genitore: è successo qualcosa ai bambini.
No, loro stanno bene… è il più piccolo che ha fatto un guaio. Vieni su a vedere. Corro su: il bambino è congelato in una espressione di terrore. Mia moglie mi spiega che giocavano a calcio e che il pallone… è finito giù. E giù c’era una carrozzina.
Pallido, mi sporgo dalla terrazza e vedo una coppia che guarda su: hanno una carrozzina, ma non riesco a vedere il bambino. Il padre mi sembra calmo, non piange, ma ha il nostro pallone in mano. Mi ritraggo, come per istinto.
Ecco, quel momento me lo ricordo bene, anche se sono passati tanti anni. Capisci che quel pallone può aver fatto un disastro e devi decidere: nasconderti, far finta di nulla sperando di sfangarla o scendere in strada, e affrontare le tue responsabilità?
Passa un lungo minuto, e guardo mia moglie che mi dice: cosa facciamo? I ragazzi mi guardano, impauriti. Ho deciso: costi quel che costi vado giù. Andrò in prigione, piglierò le botte, assisterò a una tragedia comune ma devo affrontare le mie responsabilità di padre. Da uomo.
L’ascensore scende gli otto piani del palazzo con la lentezza di un funerale, io sembro un condannato a morte sul miglio verde.
Vedo la coppia, lui e lei, e quel pallone: sta bene? Sta bene? Sì, dice lui, ma è un miracolo. Il pallone, quello sfigato pallone che, com il mitico vaso da fiori che cade in testa all’unico passante aveva deciso di volare giù dalla terrazza colpendo, nell’assoluto deserto di fine agosto, l’unica carrozzina nel raggio di chilometri, invece di centrare il bambino batte sulla sponda della carrozzina e rimbalza lontano.
Un miracolo. Io e il genitore ci guardiamo e lui non mi insulta, io non mi scuso: siamo talmente felici dello scampato pericolo che non ci importa di niente e di nessuno, siamo solo grati all’angelo custode dei bambini e dei genitori che ha spostato quella palla all’ultimo momento. Il bambino è lì, tranquillo e integro nella sua carrozzina. Penso: poteva essere mio figlio. penso: potevo essere in galera, e mio figlio con un macigno sulla coscienza che gli avrebbe cambiato la vita.
Pensate che io e quel signore eravamo così contenti che lui ha osato una battuta: «tra l’altro il pallone è del Milan, e io sono dell’Inter!». Ci siamo quasi abbracciati.
Questa storia mi ha insegnato diverse cose:
1. che ci sono momenti nella vita in cui tu devi decidere se sei un uomo o no, se il tuo onore e il tuo senso di responsabilità sono tali da qualificarti come uomo, al punto di non scappare di fronte al pericolo o alla tragedia più immane che ti possa colpire. In quel momento non subisci, hai una scelta: affrontare o scappare.
2. che non si gioca a pallone sul terrazzo, mai. Un pallone ti può sembrare una cosa innocua, ma se cade giù, anche se non era mai successo, può essere letale se la sfiga lo vuole. Quindi mai più pallone, ormai da anni. Per quello ci sono giardini, oratori e campi da calcio.
3. quel papà mi ha dato una grande lezione di tolleranza. Ho pensato che io, al posto suo, mi avrei spaccato la faccia senza profferire verbo, facendomi ingoiare poi a forza il pallone. E invece non è importante chi ha sbagliato, ma che cosa è successo. Ed è più importante la gratitudine per lo scampato pericolo di qualsiasi ira da scaricare.
4. le assicurazioni non evitano le tragedie, ma il giorno dopo tutti i massimali delle mie erano a fondo scala.
Quando si dice la vita per il pallone…
ps: mia moglie racconta che ha provato gli stessi sentimenti, ma vivendo la scena in diretta, e quindi in modo più drammatico. Il pallone rimbalza male e lei lo vede andare oltre il parapetto, dal lato della strada. Si affaccia e, lo racconta sempre, vede la carrozzina. Succede una scena tipo trainspotting: i suoi occhi zoommano il bimbo, che di colpo le appare come se fosse a due centimetri dalla sua faccia, avvicinandosi dalla strada al parapetto in un secondo. Non ha neanche il tempo di capire che se lo ha visto è perché è integro, vivo, intero. Si ritrae di colpo, con l’istinto che le chiede abbaiando nella sua mente: riguardo o scappo? Il resto lo sapete già…
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