
L’altro giorno è venuta a casa un’amica che ha dei poteri simili a quelli che aveva mia madre -lei è più una guaritrice, mia madre prevedeva gli accadimenti (leggi qui) – e dopo un po’ mi ha detto: c’è una persona in questa casa, una presenza benevola, l’ho vista con la coda dell’occhio entrando.
Sono credente, credo nella vita dopo la morte e credo anche che i nostri cari non ci lascino da soli su questa terra. Anzi, accorrono quando noi abbiamo bisogno. Mia madre si fa viva con me tutte le notti alle 4, fosse anche per un saluto, mio padre se ne sta sulle sue (è sempre stato un uomo poco espansivo dal punto di vista affettivo, pur amandomi immensamente e perdonandomi tutto, troppo) ma so che è attento soprattutto al mio lavoro (era giornalista anche lui). Anche la mia nonna materna mi segue, dialoghiamo nei sogni e ama fare dei dispetti in casa, spostando oggetti e facendoceli ritrovare una volta che ci siamo allarmati abbastanza.
Insomma, sin dalla mia infanzia a Venezia, “queste cose” nella mia famiglia sono considerate normali, era normale che mia madre prevedesso con largo anticipo accadimenti che riguardavano la famiglia, e noi ci credevamo, belli o brutti, anche perché accadevano immancabilmente.
Ma la mia amica non ha visto mia madre, mio padre o mia nonna, cioè i soliti angeli che vivono con noi anche da quando ci hanno lasciati, mi hanno lasciato orfano. C’è una nuova presenza, anche per me.
Quando mia madre era viva diceva che mio zio Plinio, suo fratello e mio padrino, l’andava a trovare sotto le spoglie di un merlo. Si fermava, la osservava a pochi metri di distanza, e lasciava che lei parlasse. Lui ascoltava.
Ogni tanto credevo di vederlo anch’io, appoggiato sul grande acero di mia madre sul mio terrazzo, ma lui andava via. Perché abbiamo litigato.
Mio zio è stata una presenza importante della mia infanzia. Uomo colto, era cresciuto alla scuola di restauratori di suo padre, il professor Gino Calore, mio nonno materno. Pur essendo laureato in biologia, aveva seguito la strada artistica di suo padre, diventando esperto restauratore, collezionista, mercante d’arte e pittore.
Ricordo dei weekend da solo con lui e sua moglie nella nostra casa di Vassena, sul lago, dove mi spiegava com’erano fatti i fiori, gli insetti, le vipere, gli alberi. Mi ha insegnato lui a pescare a Venezia. Era non uno zio, era il mio migliore amico.
Era un uomo forte e debole al tempo stesso. Mi ricordo che giocavamo a fare a pugni e lui mi faceva sempe male perché non sapeva controllare la sua forza, io piangevo e lui ci restava malissimo. Una volta, a Venezia, subito dopo la guerra, di notte in una calle buia era stato aggredito da un uomo che voleva rubargli il cappotto (quelli belli che portavano i ricchi, mio nonno era ricco). Lui, che aveva fatto il rugbista e che bazzicava l’ambiente del Petrarca, la famosa squadra di Padova, lo aveva subito atterrato e gli aveva messo una mano sulla gola. Il malcapitato ladro allora aveva iniziato a piangere e, in veneziano, gli aveva chiesto pietà perché aveva fame (dopo la guerra molta gente aveva fame, come adesso nell’Italia di Renzi). A quel punto lo zio lo aveva liberato dalla morsa, lo aveva fatto alzare e gli aveva regalato il cappotto. Questo era mio zio.
Era un uomo infelice nell’intimo. Sposato, non aveva mai avuto figli, e ne soffriva. Si dice che ne avesse avuto uno con una donna e lo aveva perso, ma forse era una leggenda di famiglia. Io ero il suo nipote prediletto, quasi un figlio. Finché un giorno, avevo 20 anni, l’ho sentito parlare male di mia madre. Ne parlava con sua moglie, mia zia, che non era tenera con la mamma. Nessuno poteva e può toccare mia madre, neanche lui. Così, all’udire quelle parole, mi ero avventato in casa sua urlandogli tutto il mio disprezzo. Fu una rottura con me, e con tutta la famiglia.
L’ho rivisto poco prima che morisse. Il bere eccessivo, i dispiaceri, gli stravizi di una vita lo avevano ridotto a una larva e distrutto il suo fegato. Rimanevano quei due occhi fuori dalle orbite a osservarmi, dopo tanto tempo. Zio, vedrai che ce la fai, gli avevo detto con un nodo in gola. Lui mi aveva guardato, stentando un sorriso: voleva morire, aveva scelto di morire così.
In questo periodo deve aver saputo da mia madre che non sto bene. Il cuore un po’ affaticato, rivoluzioni in corso, certi marosi che a volte espongono anche il mio lato più privato. Così si è fatto vivo per dare man forte.
Un giorno che stavo a casa perché non in ottima forma, mi ha chiesto, parlandomi nella mente, di salire sul terrazzo e di cercare il peso che mi aveva regalato per farmi i muscoli, un peso grezzo di quelli che si usavano una volta, fuso in un blocco.
Trovarlo era un’impresa impossibile sul terrazzo, perché poteva essere ovunque, sepolto e dimenticato fra i mille giochi dei suoi nipoti, mai visti in terra ma ben conosciuti in cielo. Salgo con solo quel pensiero sul terrazzo, e mi dirigo nell’angolo più estremo di quei 120 metri quadri pieni di piante. A colpo sicuro, eccolo lì il peso dello zio Plinio, teoricamente introvabile. Un miracolo scoprirlo al primo colpo, ma una mano mi guidava.
Lo prendo e lo sollevo, come faceva lui per i suoi bicipiti possenti, che mi faceva toccare sempre (e io mi chiedevo: un uomo così forte e così delicato da riuscire a riparare le tele di Tiepolo o del Guardi…). Sento che mi dice: vedi, porti un peso, ma hai la forza per sollevarlo.
Ora quel merlo si ferma quando guardo il grande acero di mia madre, non vola più via subito. E io lo saluto. C’è una presenza in più ora a casa nostra, che ci crediate o no.
Zio, al momento del bisogno tu ci sei stato allora e ci sei oggi, mi hai perdonato, ti ho perdonato, abbiamo fatto la pace.
Scusami se ti ho abbandonato. Ti chiedo perdono per sempre
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