Sommessamente, tra sé, l’ombra recitò l’Hannya-Shin-Kyō. Si rialzò. Tra le sue braccia, il cadavere pareva leggero come l’aria.
Recito sempre anch’io l’Hannya-Shin-Kyō, il Sutra del cuore, ogni volta che uccido un amico. Mi serve per raggiungere il mio io più profondo, staccando la parte fisica per addentrarmi, come dice l’insegnamento, in quella più spirituale e interiore.
Come il Ninja io uccido gli amici come i nemici. Sono un’ombra che fa diventare ombre anche le più promettenti amicizie. È il mio destino, da quando sono piccolo. Non so perché Dio mi abbia dato questo karma, ma io uccido gli amici.
Succede così. Incontri una persona con cui scopri di avere le cosiddette affinità elettive. Ti frequenti sempre di più, perché ti diverti. Poi qualcosa cambia. Ti fidi. Inizia a pensare che sia qualcosa di più di una divertente amicizia. Così concedi sempre di più della tua generosità. Ti confidi. Apri le porte della tua famiglia.
Ecco il grande baratro che apre al tradimento, che invoca un’unica punizione, la morte.
Se tu passi il segno che c’è tra l’amicizia e la parentela, tu non sei più mio amico, sei sangue del mio sangue, con tutti i vantaggi e gli oneri di questo status. Oneri, certo, perché la vera amicizia di sangue si vede negli oneri, nel momento del bisogno.
Ho bisogno di te perché la mia vita coniugale è distrutta: ci devi essere. Ho bisogno di te perché credo in te: non puoi deludermi. Ho bisogno di soldi: aiutami (i soldi, signori miei, sono una vera prova di fedeltà, altro che parole). Ho bisogno di te perché ho paura: proteggimi!
Pensavo di aver superato e ucciso le amicizie più promettenti e peggiori, ma non avevo calcolato che l’ombra ha un angolo illuminato, che vedono tutti: mio figlio primogenito.
I falsi amici si sono approfittati di lui, blandendolo, facendolo sentire importante, adulto. E poi si sono ritratti, come se non avessero mai promesso nulla. Li ho uccisi con le mie mani. Non in modo crudele, non esiste un modo crudele giustificato dalle regole del bushido. Certi Non se ne sono neanche accorti, sono spariti nell’ombra. Ho pregato per loro, perché qualcosa avevano dato. Ma avevano tolto il triplo di quanto avevano dato, e quindi non ho avuto esitazioni ad affondare la spada.
Mio figlio ha sofferto da piccolo grande uomo, ha già assaggiato cosa significa essere adulti prima di esserlo, almeno nel campo dell’amicizia. Ho avuto paura che avesse il mio stesso destino, di assassino di amici, visto le prove così crudeli e anticipate che ha dovuto superare.
Ma lui è un ninja bianco, lotta pensando sempre che c’è una speranza di vita migliore, mentre io sono un ninja nero, troppi morti alle mie spalle per credere nell’amicizia. Ma forse lui riuscirà a rimanere più in superficie di me, a non uccidere. Uccidere significa risorgere, ma a che prezzo figlio mio…
Anche se certi cadaveri, come scrive Van lustbader, poi risultano leggeri come l’aria.
Senza amici ormai, mi guardo intorno e vedo le mie mani sporche del sangue di molte conoscenze promettenti. Alzo lo sguardo e vedo che alcuni, pochi cadaveri, sono ancora vivi. Non sono più amici, si sono trasformati, sono diventati parte di me, della mia famiglia, sono consanguinei.
Non hanno avuto paura della mia voglia di uccidere. Sono morti come amici ma sono rinati come parenti. Sono di fianco a me. Sono pochi. Perché come diceva il grande poeta, chi ha più di tre amici veri è un’idiota.
Io non ho più amici ormai, ho solo fratelli, sorelle e, in certi casi, matrimoni.
Auguro a mio figlio di non uccidere amicizie ma, forte della sua prematura sofferenza, di passare dal nulla al tutto. Dalle conoscenze alla fratellanza. Senza pagare il prezzo che ha già pagato, e che continuerò a pagare io, come condanna del mio romantico vedere negli uomini una mano tesa che spesso si rivela una scure affilata.
Se solo potessimo cadere
Come fiori di ciliegio in primavera
Così puri e radiosi
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