Questa bella foto del mercato di Rialto di François Lemaire, amico di Facebook, che ringrazio, mi ha fatto affiorare tanti ricordi della mia infanzia da piccolo veneziano.
Una delle attrazioni delle mie passeggiate di famiglia quasi quotidiane era il mercato di Rialto, a pochi minuti da casa. Capeggiate da mia nonna Ester, capo e despota della numerosa famiglia veneziana, al mattino verso le dieci si faceva incursione al mercato con uno stuolo di zie.
La meno titolata si occupava delle verdure. Mia nonna si aspettava che, visto la qualità delle verdure della laguna, l’errore fosse impossibile. Fondi di carciofo e varie prelibatezze erano appannaggio della zia con la carica sociale minore in famiglia. Aveva un solo mandato: vietate le melanzane perché al “cicio”, cioè al primogenito maschio preferito da mia nonna, io,facevano schifo. Quindi erano vietate a tutta la famiglia, che quando era al completo nel palazzo dove abitavamo, arrivava a 20 unità ( leggi i muri veneziani della mia infanzia) .
Io seguivo la decana alla zona pesce, un tripudio di incredibili visioni. Canoce, bovoletti, garusoli, moecche (i veneziani mi perdonino per la pronuncia, sono traviato dall’esilio milanese), persino le tartarughe di terra (le compravamo, ma non per mangiarle!).
Mi ricordo un giorno particolare: nella grande cucina, la zia cuoca aveva appoggiato gli scartossi, cioè la carta da trasporto del pesce, (per venti persone, immaginate le quantità) sul tavolone della grande cucina di casa. A un certo punto un urlo. Accorriamo in massa e cosa vediamo? Moecche, cioè granchietti (prelibati e dolcissimi) a centinaia (forse no ma questo è il mio ricordo) a correre fuori dallo scartosso, vivi, per tutta la cucina, cercando di colonizzare il salone.
Tutta la famiglia coinvolta nel recupero degli alieni che fecero la fine dovuta, nel pentolone da caserma della famiglia.
E poi ricordo le piadene di bovoli, piccole lumachine lagunari aglio e prezzemolo che mangiavo a quintali estraendole dal loro guscio, un lavoro che durava un’ora.
E i garusoli, quelle conchiglie con protuberanza che se non sono freschi finisci all’ospedale in mezz’ora, e che il rito voleva si buttassero in laguna, una volta consumati.
E poi folpi, canoce, vino, pane bianco, polenta fredda bianca a listarelle scottate, baccalà mantecato comprato sotto la statua del Goldoni nella rosticceria giusta.
Venezia è grande anche nella cucina, e io sono stato allevato al pesce migliore del mondo.
Sono riuscito, con mio zio Plinio, persino a pescare a punta sabbioni le orate. Ho un ricordo tremendo della mia prima orata: la pesco, avrò avuto sette anni, la tiro su e mentre scivola sui sassi arriva un’enorme pantegana che la strappa dall’amo e me la porta via dopo la strenua lotta per portarla a riva.
Sono cose che ti segnano.
Venezia ti amo, mi manchi tanto. Il mio cuore batte con te. Serenissimo
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