Si parla molto, anzi si straparla, della morte di Robin Williams ucciso dalla depressione. Non mancano commenti del tipo “non capisco come uno ricco e famoso possa diventare depresso fino a suicidarsi” fino all’ultima voce che circola, su una presunta messinscena dell’attore che, in realtà, non sarebbe morto ma nascosto da qualche parte… Come Elivis o, pardon, Hitler… Persino Steve Jobs, ucciso da un cancro che non conosce superstiti.
Signori, la depressione grave, purtroppo, non fa prigionieri. E, come la morte, non fa differenza fra ricchi e poveri, famosi e negletti.
La depressione devi conoscerla, devi toccarla con mano per poterne parlare. Io l’ho vissuta, di prima persona, con mia nonna, poi con mia madre. Sì, perché la depressione sembra essere una malattia della mente, ma è innanzitutto figlia della genetica e della chimica. È un tumore della mente, non un vizio caratteriale.
La prima volta che ho incontrato la depressione avevo 10 anni. Mia nonna, la madre di mia madre, la mia nonna preferita, morto suo marito (c’è sempre una miccia che fa deflagrare la bomba), era caduta in uno stato catatonico. Viveva ormai nel suo letto, al buio, non voleva vedere neanche me.
A un certo punto ricoverano mia nonna a Ville Turro, nella clinica privata (nonna era ricca, ma ciò non bastò, come a Williams). Ricordo racconti di elettroshock, molto in voga all’epoca, e il tentativo di calibrare i primi antidepressivi, perché gli ssri non esistevano ancora. Per fortuna, in questi racconti da adulto, io bambino recepivo solo quello tragicomico di mia madre.
Mia madre, bellissima donna, si recava a Ville turro ogni giorno da sua madre. Mi aveva confessato, in una pausa della sua preoccupazione per lo stato della nonna (tipico dei Pellizzari reagire con la comicità ai momenti più duri), che aveva incontrato, nel giardino, un distinto signore. Affetto da non so quale mania, il signore camminava portando il ginocchio della gamba sinistra quasi al petto, tirandolo con un filo invisibile reso plateale da un gesto della mano sinistra a mo di canna da pesca.
Però quando mia madre, alta, rossa e bellissima, gli passava accanto, come d’incanto lui riprendeva non solo il contegno, ma camminava perfettamente bene. Ridevamo tanto io e mamma, delle stranezze della mente umana. La nonna poi tornò a casa, ma l’elettricità e, di più, la morte del nonno, l’avevano cambiata per sempre, e le cure non avrebbero rallentato il suo lento ma inesorabile declino.
Compiuti i 17 anni toccò a mia madre. Anche lei persona agiata, che aveva tutto dalla vita. Un marito amorevole, due figli che amava, la classica signora di buona famiglia che non ha nulla da fare se non quello di curare se stessa.., Forse questa è stata la causa scatenante. Non avere un obiettivo o, meglio, aver raggiunto ormai quello della sua vita, crescere ed accudire i figli, ora grandicelli. Si sentiva sola, mio padre, come molti giornalisti, non aveva orari.
Così, come sua madre, iniziò a non uscire più dalla sua stanza. Viveva al buio, non mangiava, stesa a letto come un malato cronico. Non voleva vederci, voleva solo morire.
Per fortuna, nel frattempo, la psichiatria aveva fatto passi da giganti. La chimica, l’unica arma secondo me in grado di fronteggiare questo male terribile, aveva creato farmaci che avevo sentito definire da una famosa star di Hollywood (guarda caso) come “salvifici”. Io giudico solo da una cosa: mia madre, azzeccato il mix chimico giusto dal luminare dell’epoca, era passata in 24 ore dalla tomba della sua camera allo shopping gaudente in Montenapoleone.
A riprova che noi umani non depressi, non conoscendo la bestia depressione, non riusciamo a capire come il malato possa non reagire, con un colpo di reni caratteriale, al gorgo depressivo che lo porta in basso. Io stesso ero arrabbiato con mamma, perché incapace di “reagire” con le sue forze.
Signori, la depressione non è un moto dell’anima, è una morte chimica della felicità, con sicuro innesco psicologico, ma è dipendente da meccanismi che nulla hanno a che fare con la volontà, io l’ho visto.
Trovo infatti eroici gli amici psichiatri, spesso ancora idiotamente liquidati come medici dei pazzi, che lottano oggi, per quanto con armi formidabili, contro una nuova generazione di depressi difficili e pericolosi. Sono quell’esercito di licenziati al culmine della carriera, perché troppo costosi e troppo “vecchi” , che vedono esplodere nei loro geni il segno familiare della depressione, fatto deflagrare dalla ricompensa del licenziamento per anni di devozione e lavoro di qualità, un’ingiustizia che farebbe impazzire anche il più savio. Già, perché il propellente è dentro di noi, ma ci vuole un cerino per accenderla.
Lo specialista, oggi, ha la grande responsabilità di fare una selezione fra questi depressi che sia salvifica. Tutti, infatti, hanno un comun denominatore: pensano, prima o poi, di farla finita, proprio come Williams. La delicatezza del compito dello psichiatra sta nel riconoscere chi lo pensa ma non lo farà, e chi sta già pianificando. Salvandone il più possibile.
Quindi, prima di giudicare un depresso più o meno famoso, rileggiamoci l’inferno di Dante.
Io temo la depressione, e per quanto sia un uomo strutturato, felice e dall’ego quasi smisurato, so che è in agguato nei miei geni pronta a ghermirmi, di fronte a possibili grandi difficoltà.
Temo anche la sua propensione per l’intelligenza: questo cancro della volontà sembra preferire le menti più accese e sensibili.
Ho solo un vantaggio: so che faccia ha.
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