Simone faceva il reporter di guerra. Sapeva bene che cosa rischiava. Ma il mestiere più bello del mondo è fatto anche di questo: vedi il pericolo, ma la curiosità, la voglia di raccontare, la sete di verità ti fa fare un passo avanti, non uno indietro.
La gente ha una visione confusa e per stereotipi del nostro mestiere. Si va dal pennivendolo all’eroe che muore per testimoniare i retroscena di una guerra, dalla visione di noi come impiegati di lusso ben pagati alla consapevolezza (molto limitata) del fatto che i giovani che si affacciano alla professione oggi sono pagati pochissimo, sono precarissimi e non hanno maestri con il tempo di insegnarli il mestiere. E che molti di noi stanno perdendo il lavoro, lo hanno perso o sono in cassa integrazione, mentre veniamo ancora visti come casta intoccabile.
Insomma, non c’è la via di mezzo: siamo eroi o scribacchini svogliati e viziati, salottieri portavoce dei potenti o irrefrenabili inchiestisti.
La realtà? Ci sono mestieri diversi dagli altri perché, per ottenere il risultato prefissato, per fare bene il tuo lavoro, devi rischiare. La vita, nel caso di Simone, ma quanti colleghi che fanno la giudiziaria o scrivono di mafia si sono visti bruciare l’auto, ricevono minacce quotidianamente, vivono sotto scorta. Non bisogna essere Saviano per condividere la sua vita blindata e da brividi sulla schiena, basta anche un solo articolo scomodo.
C’è poi la stragrande maggioranza di colleghi che non va in guerra, non rischia la vita scoperchiando i vasi di Pandora dei delinquenti. Sono quelli che, per raccontare la verità, scoprono e svelano realtà scomode. Economia, Sanità, intrallazzi politici, cronaca locale, maneggi. Questi giornalisti denunciano cose che, senza di loro, passerebbero sotto silenzio. Piccole, medie, grandi: senza di loro ci sarebbe solo il silenzio.
Che cosa rischiano? Non la vita, ma la serenità di sicuro, che non è un prezzo da sconto. Chi viene “disturbato” dalla verità spesso reagisce con querele, richieste enormi di risarcimento dei danni, robe da mangiarti la casa sudata con vent’anni di mutuo…
È vero, spesso e per fortuna, interviene l’editore a difenderti, perché se ha interesse alla qualità gli interessa che i suoi giornalisti facciano bene il loro mestiere, siano cani da guardia e scomodi investigatori della realtà. Ma non succede sempre, e succede sempre meno.
Quando ero giovane e facevo qualche inchiesta, mi ricordo il mio primo avviso di garanzia. Oggi, nell’accezione distorta e diffusa, è diventato una sentenza di colpevolezza, ma in realtà dovrebbe essere, lo dice il nome stesso, una garanzia per chi lo riceve, un modo di dirti: stiamo indagando su una cosa che hai scritto perché qualcuno dice che non è la verità. E se tu hai fatto bene il tuo lavoro, scrivendo la verità e documentandola bene, non devi temere nessuna indagine.
Però vi assicuro che quando il poliziotto si è seduto davanti a me e mi ha consegnato la carta bollata, ho avuto un attimo di paura. Mi ricordo che lui, vedendo la mia giovane età e il pallore in viso, mi aveva detto: non si preoccupi, a qualche metro da qui ne porto almeno dieci al giorno! Poco rinfrancato, ero andato a rivedere subito tutto il materiale raccolto per l’inchiesta, alla ricerca di una falla. vedevo che il mio lavoro era stato fatto con coscienza, e mi sentivo meglio. Poi arriva un vecchio caporedattore e mi dice: benvenuto nel club! Sai, ogni querela ricevuta è come un aeroplano abbattuto disegnato sulla carlinga di un asso dell’aviazione…
Sarà, avevo pensato, ma chi me l’ha fatto fare di cercarmi questa grana… Me lo aveva fatto fare il mio amore per il mestiere più bello del mondo, e lo avrei rifatto. È andata bene, quella volta, e altre volte. Può non andare bene sempre, perché solo gli imbecilli non sbagliano mai, ma è la voglia di raccontare la verità che conta, non importa se è guerra o furto.
Quindi, quando pensate a noi, non pensateci tutti ricchi sfondati, con i piedi su una ben protetta scrivania a pontificare sulla vita degli altri, pronti a rovinargliela per uno sfizio.
Pensate a pensarci, ed è la maggioranza di noi, chini sulla tastiera spesso per 10 ore al giorno, spesso durante le feste, spesso portandoci il lavoro a casa, spesso divorziando per questo, alla caccia di piccole grandi verità, sempre scomode per qualcuno, sempre pronto a saltarci al collo.
Non siamo eroi, siano professionisti. E molte delle cose venute a galla di questo povero ormai paese con la p minuscola non le sapremmo se qualche “pennivendolo” non avesse sudato le sue sette camicie sulla tastiera.
Concludo dicendo solo che lo rifarei e, finché me lo concederanno, lo farò. E se uno dei miei figli mi chiedesse un giorno di fare il giornalista, nonostante i tempi bui che accompagnano la professione, gli direi: bravo, fallo, è il mestiere più bello del mondo. Sappi che avrai paura, a volte, di quello che scrivi, ma la bontà di quello che scrivi e il servizio pubblico che farai ti compenserà e ti farà andare avanti.
Simone, hai una bambina di tre anni che non crescerà con te. Ma ti sarà grata per il tuo impegno e coraggio. Sarà fiera del suo papà. Non rammaricartene da lassù.
Ps: qualcuno dirà che ho una visione troppo romantica del nostro mestiere. Sarà, ma non me ne vergogno. È un sentimento, non una visione