Gli esami non finiscono mai, diceva il grande Eduardo. Lo pensavo leggendo i ricordi di amici della loro maturità.
Io la maturità me la sogno ancora adesso, ma è un incubo. Facevo lo scientifico perché i miei amici lo facevano, ma odiavo matematica e amavo italiano. Ho preso 36 salvandomi con italiano, Dante e rimontando un compito di matematica disastroso.
Ma per me gli esami sono finiti con l’esame di Stato a Roma per diventare professionista nel mio mestiere.
Da una parte trovavo assurdo che, dopo che una grande azienda ti assume (e ti assume fatto e finito, perché sai già scrivere, hai già tutti i tuoi contatti, la gavetta l’hai superata da tempo, altro che assunzione altrimenti) tu debba “dimostrare” di saper fare quello che sai già fare.
Dall’altra avevo deciso di dimostrare a me stesso, e al collega più importante, mio padre, che avrei superato la prova con il massimo dei voti.
Così studiai il librone dell’ordine, un compendio di migliaia di nozioni fra etica, sindacato e diritto penale a menadito. Non persi una lezione del mitico Alessandro Caporali, e mi accorsi che avevo ancora da imparare.
E venne il giorno dell’Ergife, il palazzone dove tutti noi, ancora con la vecchia macchina da scrivere, affrontammo la prova che avrebbe significato non solo che eravamo professionisti, ma che avremmo avuto in busta paga un bel salto di livello, mi pare all’epoca sulle 600.000 lire!
Mi ricordo ancora quell’enorme stanzone con i banchi e centinaia di noi che, di colpo, si trasforma in un hangar per il frastuono dei tasti impazziti.
Io avevo scelto, come tema gli esteri il casino di Diana, allora ancora viva ma in pieno scandalo, con l’uscita di libri su di lei. Un tema apparentemente facile. Ma i colleghi su questo erano caduti come mosche. Il mitico Caporali mi aveva chiamato a casa dicendomi che il mio tema era stato uno dei migliori della Lombardia (54/60) e che io non ero incorso nell’errore di tutti: trattare l’affaire Diana come gossip e non come esteri, come affare di Stato.
La prova più difficile era stata superata. O almeno così credevo: si diceva allora che la commissione difficilmente bocciava all’orale chi aveva uno scritto sopra il 50.
Non era così. All’orale sono il terzo e, assisto, con tutti gli altri, in una specie di aula anfiteatro, all’interrogazione dei primi due, due colleghe. L’atmosfera è da tifo da stadio nonostante i richiami del presidente, un magistrato.
La prima ragazza, con un bel 48 allo scritto, viene cacciata alla seconda domanda fatta dal cattivo di turno, un collega che aveva deciso di fare piazza pulita di colleghi. Una domanda insidiosa sul nostro contratto:,se non la sa, aveva detto, non potrà difendere i suoi diritti.
A poco erano valse le solite pacche sulle spalle per rincuorarla, e i soliti anche Biagi e Moravia sono stati bocciati la prima volta: era in lacrime.
Tocca alla seconda. Tutto bene poi arriva il cattivo. Domanda sindacale. Silenzio. Bocciata. Gelo.
Tocca a me. Il magistrato mi chiede del mio escursus “medico” al Corriere e poi in Mondadori, ma mi fa una domanda sulla diffamazione. So tutto. Un altro mi fa una domanda sul contratto. So tutto.
Arriva il cattivo e mi chiede, a bruciapelo: che cos’è un doppler? Il mio cervello va in pappa. Penso penso ma nulla. Dico: scusi, lo so, l’ho scritto mille volte, ma ora sono agitato ma non mi sovviene. Risposta: uno che scrive di salute e non sa queste cose… Ghigno satanico. Per fortuna interviene il magistrato: questo non è un esame di medicina, andiamo avanti!
Rispondo bene ad altre domande, mi ripiglio. Sto per rilassarmi quando il cattivo torna all’attacco, e fulmineo come un serpente mi chiede: che cos’è una leucoplachia? Un secondo di silenzio e la mia mente si rischiara in un lampo: è una lesione precancerosa del cavo orale!
L’arena, che odiava il cattivo, scoppia in un boato urlando un clamoroso TIÉ! Il presidente urla basta basta, il cattivo si è gelato e tiene gli occhi bassi e io mi prendo il mio 60/60 e abbraccio accademico.
Così a trent’anni ero diventato giornalista professionista con il massimo dei voti. E potevo dedicarlo a mio padre, collega felice.
È stato il mio ultimo esame vero. La vita me ne ha riservati altri e molto più difficili, ma la mia vera maturità è stata quella. Me la ricorderò sempre e, papà, che bello vederti orgoglioso di me dopo tante malefatte a scuola.
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