
Era mio padre
Oggi, festa del papà, voglio raccontarvi il mio e pensare a lui.
Alto, Occhi azzurri, dicevano che fosse uno degli uomini più affascinanti di Venezia.
Faceva il giornalista come me e aveva vissuto per un po’ a Londra, dove aveva imparato a giocare al suo amato bridge e mi faceva lezioni di inglese, mostrandomi la cartina della metropolitana che dovevo studiare segnando col dito le zone dove abitavano le sue fidanzate, tre o quattro almeno.
Non so se fosse davvero cosi sciupafemmine, so che le donne lo amavano e lui piaceva molto.
Anche il fatto di essere corrispondente per un settimanale tedesco e il suo dover periodicamente recarsi ad Amburgo, città libera e piena di “libere donne”, come le descriveva lui, a fare quelle serate all’insegna di “Alberto please, make for us your magnifica Carbonara!”, non depone a favore della fedeltà.
Non so dunque se sia sempre stato fedele a mia madre, mi piace pensarlo anche se non è realistico per molti motivi: il suo fascino, i suoi viaggi, quei lunghi agosti noi a Venezia e lui a lavorare da solo a Milano o in qualche parte del mondo, il suo essere cresciuto all’epoca delle case di tolleranza…
Forse non è stato sempre fedele fisicamente a mia madre, ma con la testa sì, perché l’amava. Quindi che importa la fedeltà caro papà?
Si erano conosciuti a Venezia con mamma, perché il suo miglior amico era mio zio Plinio, mio padrino e fratello di mia madre.
Papà orfano già a tre anni, veniva da una famiglia povera che abitava alla Giudecca, all’epoca non proprio il sestriere di lusso della città. Mia madre invece veniva da una famiglia ricca e rispettata, che lo accoglieva a pranzo come amico di Plinio, ma mi ricordo che mia nonna diceva che “così mangiava un po’, povero ragazzo”.
Era nato così l’amore fra mia madre e mio padre, a palazzo Morosini, dove abitava la famiglia di lei all’epoca.
Mio padre non ha avuto un padre. Il nonno, morto giovane per un’infezione allora incurabile, aveva lasciato lui e sua madre soli in una Venezia prefascista, difficile da vivere.
Sua madre, mia nonna Regina detta Ginetta, si era presto risposata con quello che sarebbe diventato un fotoreporter famoso. Un matrimonio di salvataggio per lei, bellissima, d’amore per lui, almeno all’inizio narravano i miei avi.
Lui non amava mio padre, ancora meno quando mia nonna ebbe il fratellastro di mio padre.
Mi ricordo che mio padre, se solo osava fare qualcosa di sbagliato alla tavola del patrigno, riceveva una bicchierata gelida d’acqua in faccia. Un’umiliazione che a immaginarla mi ha sempre fatto del male.
Il patrigno lo aveva anche preso a lavorare nella sua agenzia e gli aveva insegnato a fotografare. Era il periodo della moda, e mio padre aveva avuto una storia con una famosa attrice. Però lui preferiva scrivere, non fotografare o commerciare in foto.
Mio padre era legato, non ricambiato, al patrigno. Quando in un momento di difficoltà lavorativa mio padre è stato abbandonato al suo destino dal patrigno, con mia nonna che rispondeva a mia madre che la pregava di aiutarci “ognun per sé, Dio per tutti”, aveva 40 anni.
Il peggior tradimento è quello dei genitori o dei fratelli.
Ma mio padre si è risollevato dai debiti E dall’infarto (fumava 60 sigarette al giorno) e ha fatto fortuna da solo, rilanciandosi nel lavoro e assicurandoci una vita agiata.
Questo era mio padre.
Io gli sono diventato amico solo a 18 anni. Con lui il rapporto è stato difficile, sempre mediato e salvato da mia madre.
Lui, che non ha avuto un padre, aveva idee confuse sul come farlo. Da una parte era troppo permissivo, dall’altra voleva essere autoritario e rispettato come il patrigno. Risultato: la mia ribellione.
Mio padre pretendeva infatti rispetto senza applicare la regola aurea del do tu des che io applico con i miei figli: io ti premio se tu fai bene il tuo lavoro, io non sono una volta tuo amico e una volta un padre autoritario, io sono tuo padre punto. E tu mi porti rispetto perché io me lo sono guadagnato, anche.
Così ogni anno la stessa storia: due materie a settembre e lui che mi comprava il motorino avvertendomi che era un investimento per il futuro. E poi la moto. E poi l’auto. E io ne approfittavo. Litigavamo ma lui cedeva.
Ma ci amavamo pur litigando ferocemente.
A 18 anni provo a lavoricchiare con lui, per guadagnare un po’. E scopro che mio padre è un Figo, non un debole. Scopro che è bravo nel suo lavoro, che sa tramutare idee in ricchezza per la famiglia. E così si guadagna la mia stima per la prima volta. E con la stima e il lavoro insieme migliorano i rapporti.
Da allora io e mio padre siamo diventati amici.
mamma se ne è andata prima di lui, e lui un giorno mi ha detto che era stufo di vivere senza di lei.
Aveva ripreso a fumare ma poi, forse spaventato dalla paura di qualche sintomo inconfessato, aveva smesso.
Dopo soli 15 giorni l’ho trovato addormentato sulla sua poltrona in pigiama, in attesa che si scaldasse la sua brioche. Se ne era andato dalla mamma.
Quando parlo con lui in questo periodo scherziamo sul fatto che smettere di fumare lo abbia di fatto ucciso.
Questo era Ed è Alberto Nicolò Pellizzari, mio padre.
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