Il successo del mio articolo La depressione non fa prigionieri mi ha fatto un enorme piacere, perché vuol dire che alle persone il tema interessa, e questo porta acqua al mulino dei depressi, che hanno un enorme bisogno non solo di aiuto, ma di comprensione. Perché chi non comprende un depresso e le dinamiche della malattia non potrà aiutarli. E forse, inconsapevolmente, gli farà ancora più del male.
La persona che ho amato di più nella mia vita è stata mia madre, e da lei ho ereditato molto di buono e di bello ma, ne sono sicuro, anche il gene della depressione. Un mostro in agguato nei gangli della mente, che aspetta che la vita prenda la piega sbagliata per impadronirsi della ragione.
Così fu per mia madre e, prima di lei, sua madre. Ho visto la depressione trasformare una donna bella, intelligente, serena in uno zombie incapace di scendere dal letto. Non so cosa abbia innescato la miccia che ha fatto esplodere la malattia: sta di fatto che, dopo una banale litigata con mio padre, una delle tante nelle coppie di lungo corso che si amano, lei non si è più alzata da quel letto, vivendo nell’ombra prima per giorni, poi per settimane.
Io ero adolescente, e mi ricordo che a un certo punto sono entrato nella sua stanza per farla reagire. Chi non è depresso pensa che i malati del cancro della mente possano reagire, sia solo questione di volontà, di uno sforzo d’animo.
Così ho iniziato a parlare con le buone, ma poco convinto, perché per me quella era una persona debole che non voleva reagire. Mi rispondeva al buio, come se fossi a colloquio con un defunto. Perché fai così mamma? Reagisci! Non ti importa di tuo marito, dei tuoi figli? No, non mi importa nulla. E che cosa vuoi fare? Voglio solo morire.
Ero uscito da quella stanza non disperato, ma arrabbiato. Per me, a 17 anni, era inconcepibile che una madre potesse comportarsi così, arrivando a dichiarare che i figli non contavano nulla di fronte alla sua inedia. Anche mio padre, un marito innamorato, era più seccato che disperato. I “normali” non capiscono, non accettano, si arrabbiano di fronte all’arrendevolezza con cui un depresso si abbandona alle spire della malattia, un serpente che strozza la volontà.
Per fortuna la mia era una famiglia che poteva permettersi un famoso psichiatra il quale, nel giro di poche settimane, aveva azzeccato il mix di pillole giusto. Ricordo mia madre risorgere da quel letto-tomba in sole 24 ore, dopo più di un mese di coma psichico.
Sto meglio, mi aveva detto accarezzandomi il viso. E, in un gesto, aveva riconquistato il mio amore, nonostante il rancore per la sofferenza che io credevo lei avesse inflitto alla famiglia. Era andata dal parrucchiere, si era fatta bella, e mi aveva chiesto di accompagnarla a fare shopping, sulla sua mini minor viola: sai Alessandro, non mi fido ancora di guidare da sola. Era stato, quel pomeriggio, come ritrovare l’amore di una persona che ti aveva lasciato, anzi “tradito”.
Ma il repentino cambiamento di umore indotto dalla cura chimica aveva fatto capire a tutti, anche ai più feroci detrattori della forza di volontà di mia madre, che quella malattia non poteva essere solo il frutto di un carattere debole o poco avvezzo a resistere alle prove della vita, era qualcosa di chimico-meccanico che, senza la formula giusta, avrebbe avuto ragione della mente di qualsiasi persona.
Ho così imparato il rispetto per i depressi. E ho anche capito che la dannata malattia ama colpire le persone più intelligenti e sensibili. Mia madre era un’artista, figlia di artisti, con una sensibilità superiore alla media per le cose belle. La malattia l’aveva trasformata, per più di un mese, in una persona arida e così indifferente alla vita da volerla perdere.La malattia ama le persone che pensano, che cercano spiegazioni, che usano la mente come motore della conoscenza, che non si adattano alle semplici nozioni ma chiedono sempre perché, perché, perché… Il mostro si nutre, ne sono convinto, di questa sete di conoscenza, il mostro si nutre di intelligenza.
Però al cancro della mente non basta sempre e solo distruggere, almeno per un po’, la vita del suo obiettivo e quella di chi gli sta intorno, a volte vuole tutto. Ed è così che, ogni tanto, si porta via anche la vita organica degli ammalati. Il mostro, infatti, è capace di togliere ogni volontà di fare, fosse anche semplicemente mangiare, ma può fornirti una volontà ferrea nel pianificare, perseguire e attuare la tua fine.
Ecco perché è fondamentale ricorrere subito, senza perdere un minuto, allo specialista e ai farmaci, alla psicoterapia d’appoggio e a tutte le armi che la medicina ci fornisce contro la Bestia. Tra l’altro, gli specialisti sanno capire subito quanto il rischio di fare un passo senza ritorno sia remoto o vicino, e comunque sono in grado di bloccare la corsa della macchina verso il precipizio, nella stragrande maggioranza delle volte.
Però la depressione, una volta che ti ha ghermito, cercherà di non lasciarti più. Come un herpes, approfitterà di ogni abbassamento delle tue difese psichiche per cercare di invadere nuovamente la tua mente. Ma mia madre, grazie ai medici e alla nostra finalmente senziente collaborazione, aveva imparato a riconoscere quelle sottili tracce che il serpente iniziava a lasciare quando voleva strisciare fino alla sua mente, e prendeva subito quelle che chiamava “le mie pillole”. E’ andata avanti così per tutta la vita, ha dovuto cambiare anche mix e dosaggi più di una volta, ma non l’ho più sentita dire “voglio morire”.
Ora, io so che con me porto la malattia. So, l’ho sentita più di una volta strisciare nella mia mente: quando è morta mia madre, quando è morto mio padre, quando le cose mi sono andate male, o i guai si sono affastellati uno sopra l’altro da sembrare senza via d’uscita. La chiamano la nuova malattia dei manager licenziati o in disgrazia, ma in realtà lei è sempre la stessa: vive in certe persone e in altre no, e approfitta delle disgrazie per attaccare, di qualsiasi tipo siano.
Ho visto il cancro della mente aggredire adolescenti e giovanissimi, approfittandosi di quelle che, banalmente, noi liquideremmo come pene d’amore. Il rischio è questo, per noi, voi “normali”: non riuscire a spiegarsi come certe persone non abbiano abbastanza forza di volontà per reagire alla malattia. E’ così che si arriva a disprezzare, persino odiare un depresso.
Non fatelo. Il cancro della mente conta sulla nostra insofferenza come su un alleato prezioso per fiaccare le ultime resistenze di chi soffre. Ma la malattia teme, più delle medicine, più di qualsiasi altra cosa, la solidarietà e la comprensione dei normali.
Teme quella mano che ha allungato mio padre, dicendo: vieni, c’è qui in casa nostra il professore che vuole conoscerti. E che ha salvato mia madre.
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